Dall’auto-difesa a una pedagogia hacker conviviale

Ippolita

C'era una volta

C’era una volta una città adagiata sulle sponde di un lago fra le montagne. La città era molto sporca perché i cittadini gettavano per strada i rifiuti; le acque di scolo finivano nel lago, inquinato e maleodorante. Vennero emanate leggi sempre più severe, ma a nulla valevano le reprimende e le multe; persino la galera si era rivelata inefficace. Ormai i cittadini si erano abituati al malcostume, si erano assuefatti al fetore delle fogne a cielo aperto e ai fumi tossici dei cumuli di spazzatura in fiamme. S’era tentato di tutto ma ogni rimedio era miseramente fallito. Quelli che non sopportavano la situazione avevano fatto fagotto da un pezzo; gli altri si erano rassegnati. Dopotutto, pensavano, io mi comporterei come si deve, ma se gli altri continuano a comportarsi male, tanto peggio.

Un bel giorno arrivò in città un impresario. Si propose di risolvere gratuitamente la situazione, a patto che il governo cittadino gli affidasse i pieni poteri sulla faccenda. Se qualcosa fosse andato storto, se la cittadinanza si fosse lamentata, gli avrebbero dato il benservito. Ottenne una delega totale. I tecnici dell’impresario installarono tanti cestini della spazzatura e indissero un fantastico gioco a premi. Chiunque poteva partecipare: bastava seguire le regole per la raccolta differenziata e si potevano vincere straordinari premi, tutti si divertirono molto.

Funzionò tanto bene che in capo a pochi mesi la città era linda. Ma i trasporti pubblici erano in crisi. I parcheggi selvaggi. Le strade insicure. Le casse vuote. L’impresario ottenne di poter gestire anche gli altri settori in difficoltà. I cittadini si registravano con nome e cognome e indirizzo sulla sua piattaforma social. Raccontavano per filo e per segno quel che facevano, e quello che facevano i loro amici e conoscenti, e le persone che gli stavano intorno. Più particolari raccontavano, più accumulavano punti e crediti. Queste e molte altre azioni permettevano di entrare in speciali classifiche; i giocatori che si distinguevano potevano salire di livello, e accedere a nuovi eccitanti ricompense grazie al loro status. Con un sofisticato sistema era possibile accumulare crediti sotto forma di moneta digitale sui conti gestiti dalle società dell’impresario. L’elenco delle azioni corrette veniva aggiornato in continuazione. Denunciare la cattiva azione di un vicino, per esempio, dava diritto a tre minuti di shopping in uno dei supermercati dell’impresario; a cinque minuti se era un cittadino mai colto in fallo prima. Si animarono gruppi di discussione sui metodi per salire di livello più velocemente, e per esibire le proprie imprese. I crediti soppiantarono la moneta all’interno della città. Ogni interazione poteva essere quantificata in base ai crediti, che si potevano acquistare e vendere: la banca dell’impresario tratteneva solo una piccola percentuale su ogni singolo scambio.

Il governo cittadino venne sciolto. Al suo posto si insediò la governance tecnica dell’impresario, un’organizzazione privata, con grande risparmio di tempo, denaro ed energie. La città divenne un modello per il mondo intero. Venivano da lontano a studiarne il miracolo. Erano tutti concordi sulla caratteristica più notevole del sistema, vera realizzazione del paradiso in Terra: non c’era più bisogno di pensare per scegliere, un magnifico sistema di notifiche informava tutti i giocatori delle prossime mosse da effettuare per guadagnare una reputazione. Le rare voci dissidenti sostenevano che i giocatori agivano come macchine programmate in maniera automatica, ma come confessò un cittadino inizialmente scettico, finalmente si sentiva davvero libero, per la prima volta nella sua vita. Nessuno voleva tornare in preda al dubbio, all’incertezza e alla fatica di scegliere.

E tutti vissero addestrati e contenti.

Gamificazione

Questa storiella racchiude i principali elementi della gamificazione, dall’inglese gamification, tradotto a volte in italiano come ludicizzazione, uno dei sistemi di attuazione della governance digitale. Il meccanismo di base è semplicissimo: si trasforma ciò che viene descritto come un problema in gioco, o, per meglio dire, in schema di gioco. La ripetizione di un’azione ritenuta corretta viene stimolata attraverso premi, crediti, accesso a un livello gerarchico superiore, pubblicazione di classifiche. Dal punto di vista normativo, invece di punire le infrazioni alle regole, si premia il rispetto delle regole. È una normatività totalmente piena e positiva, priva di dimensione etica, poiché il valore del comportamento, la sua assiologia, è determinata dal sistema, non dalla ri flessione personale e collettiva sull’azione stessa. La gamificazione incarna la società della prestazione 1.

I meccanismi di fidelizzazione dei consumatori, degli elettori, dei sudditi, sono noti da secoli. Tuttavia, la pervasività dei sistemi di connessione digitale interattivi apre scenari inediti alle tecniche di addestramento di massa. Si tratta di una delega cognitiva che diventa delega dell’organizzazione sociale. Le procedure di interazione automatizzate si raffinano attraverso l’uso che gli utenti fanno dei loro strumenti. La partecipazione alla costruzione di mondi condivisi si trasforma in addestramento comportamentale.

Ovviamente questa non è un’apologia del castigo, un elogio dei sistemi repressivi. Il proibizionismo repressivo provoca in genere l’acutizzarsi del desiderio di trasgressione ed è perciò un sistema di rinforzo negativo. Ma nei meccanismi di rinforzo positivo non è tutto oro ciò che luccica. Chiunque abbia avuto a che fare con un bimbo sa che premiarlo è più facile che educarlo. Salvo poi rendersi conto che il bambino assuefatto al premio vuole un premio sempre più grande, e non c’è verso di convincerlo a far qualcosa senza promettergli un riconoscimento ancora maggiore. E allora spesso si ricade nel sistema punitivo, che si rivela come l’analogo opposto del sistema premiale. Il premio, come la punizione, nega il piacere intrinseco del processo, perché rimanda a un sistema esterno.

L’educazione invece di per sé non c’entra nulla con il rispetto delle regole date, né tanto meno con l’obbedienza. Il solito vecchio Socrate, volendo educare i giovani alla cittadinanza con il proprio esempio, non solo infrange le regole, ma invita gli altri alla disobbedienza, a seguire il proprio dáimon. L’educazione automatica non è altro che addestramento, e conduce all’assoggettamento; anche se in apparenza può produrre buoni risultati, nel senso di prestazioni misurabili, senz’altro non crea indipendenza né responsabilità. Invece di promuovere l’autonomia, la capacità di darsi regole da sé, induce all’infantilizzazione della società, annichilisce la possibilità di un’etica della responsabilità.

Piacere

Il crinale fra apprendimento e addestramento è sottile. La ragione principale chiama in causa una molecola organica che svolge un ruolo centrale nell’apprendimento e nella risposta a stimoli di rinforzo positivo: la dopamina (più correttamente dopammina), un neurotrasmettitore che percorre le piste neurali del nostro cervello. Semplificando un meccanismo estremamente complesso, possiamo dire che il senso di gratificazione e ricompensa che proviamo quando riusciamo ad apprendere qualcosa è connesso al rilascio di dopamina. In generale, lo svolgimento delle attività piacevoli a livello psico-fisiologico (dissetarsi, sfamarsi, sesso, riconoscimento, empatia e così via) corrisponde ad accresciute concentrazioni di questo neurotrasmettitore. Lo stesso vale per l’utilizzo di sostanze stupefacenti.

L’apprendimento in ogni sua forma, anche nelle attività fisiologiche, richiede sforzo, cura e attenzione. Leggere è faticoso, così come assimilare una competenza qualsiasi. Procurarsi attività fisiologiche soddisfacenti costa fatica. Come si sarà intuito, il modo più semplice e meno oneroso di innalzare i livelli di dopamina e quindi di provare piacere è portare a termine un compito, svolgere una procedura. È una scorciatoia.

I processi di elaborazione emotiva che avvengono nel sistema limbico, la parte centrale, la più antica del cervello, segnalano la presenza o la prospettiva di ricompense o punizioni per promuovere l’attivazione di programmi motori finalizzati a procurare piacere o evitare disagi. Le sostanze che generano dipendenza agiscono esattamente in questa regione cerebrale, facendo sì che le sensazioni di piacere e le connessioni neuronali che si creano si rafforzino sempre di più, perdendo in plasticità. Questa sorta di irrigidimento connettivo corrisponde a una diminuita capacità di rilassare lo stato di piacevole eccitazione neuronale causato dalla dopamina: in termini più tecnici, si verifica una compromissione a lungo termine delle vie sinaptiche che collegano i neuroni.

Questi sentieri diventano strade asfaltate nel nostro cervello, e per provare ancora piacere ci vogliono autotreni di dopamina. A ogni passaggio, la dose necessaria aumenta. Ecco perché l’addestramento è così efficace, e genera assuefazione. Il piacere correlato a un automatismo, cioè a un comportamento compulsivo, ci fa entrare in un circuito ripetitivo da cui è sempre più difficile uscire perché le vie neurali, rimanendo sempre eccitate, non potranno far altro che potenziarsi con il passare del tempo. Tempo, ritmo, ripetizione.

L'utente tocca il dispositivo. Non una volta, ma molte volte. Da tutti quei tocchi - ogni tocco è una battuta - deriva il ritmo, che si ripete in molte interazioni con lo strumento. Un comportamento abituale è evidente in un ciclo.

Ridateci il gioco!

Ritorniamo al concetto di ergonomia cognitiva: grazie ai supporti digitali possiamo abbassare il nostro carico cognitivo e, per esempio, delegare il compito di ricordare tutti i numeri della nostra rubrica. Un aiuto indispensabile. Non abbiamo seguito nessun corso per imparare a consultare la rubrica cartacea. E nemmeno quella del nostro telefono, o della gestione dei contatti su una piattaforma social. Forse abbiamo dovuto chiedere a qualcuno più smanettone di noi, probabilmente non sappiamo esattamente come funziona, però l’importante è che arriviamo all’obiettivo. Per far questo, dovremo compiere una serie di azioni ripetitive, ovvero ripercorrere una procedura. Seguiamo le tracce manifeste nell’interfaccia della procedura algoritmica pensata da altri per noi.

L’organizzazione del nostro sistema cognitivo si basa principalmente sulle facoltà intuitive e sul ragionamento. Affidandoci all’intuizione, non facciamo altro che interpretare un contesto attraverso schemi mentali che fanno già parte del nostro bagaglio mnemonico inconscio. Lo sforzo cognitivo e computazionale è minimo, dal momento che non dobbiamo pensare a quello che stiamo facendo. Agiamo in maniera automatica. Il ragionamento invece richiede uno sforzo cognitivo notevole, dobbiamo soffermarci su un problema, fare ipotesi, seguire una sequenzialità che impone un ritmo lento e un pieno coinvolgimento. L’intuizione ci permette di agire e di usare uno strumento senza essere in grado di spiegarne il funzionamento, mentre il ragionamento può renderci in grado di spiegare esattamente come funziona qualco sa senza essere in grado di usarlo. Una virtuosa del violino può non avere idea di come funzioni la propria muscolatura, ma sa usarla alla perfezione. Viceversa, possiamo essere in grado di descrivere teoricamente i passaggi per guidare un trattore leggendo un manuale, senza essere in grado di guidarlo in pratica.

La memoria dichiarativa (sapere che, sapere qualcosa) è distinta da quella procedurale (sapere come). Tutte le attività che svolgiamo in modo automatico coinvolgono la memoria procedurale. Quando agiamo intuitivamente ci rifacciamo a procedure che abbiamo appreso in passato, simulando la strategia che ci sembra più adeguata per portare a buon fine il compito che dobbiamo svolgere. Non abbiamo bisogno di pensare: è una questione di ecologia delle risorse, non si sprecano preziose energie computazionali per pensare a come si guida una bicicletta se l’abbiamo già imparato. Se non c’è nessuna corrispondenza con le nostre esperienze pregresse, dobbiamo rifarci al ragionamento e analizzare le condizioni ambientali prima di agire: si è bucata una gomma, proviamo a smontarla e a ripararla... niente da fare, dobbiamo chiedere aiuto, oppure ingegnarci altrimenti, creare una procedura inedita.

Nella stragrande maggioranza dei casi, usare in maniera continuativa un medium digitale, come un’interfaccia web, vuol dire apprendere progressivamente a usarla in maniera automatica. Se poi le interfacce stesse sono progettate per essere il più possibile intuitive e semplici da usare, si capisce come, attraverso la creazione di schemi mentali, si può dire che le usiamo «senza pensare». Se cambiamo modello di cellulare e usiamo la stessa applicazione, ci basta identificare l’icona dell’applicazione per poterla usare in maniera automatica, scrivendo senza nemmeno guardare il tastierino.

Una volta addestrata, la mente è in grado di creare delle simulazioni interne precedenti all’azione che stiamo per compiere: la capacità intuitiva è quindi la capacità di simulare una procedura nota e agirla in maniera automatica. L’automatismo coincide con l’esecuzione della procedura. Da cui derivano la gran parte degli apparenti equivoci sui benefici per l’apprendimento derivanti dall’uso di dispositivi digitali, e sulle presunte differenze cogniti- ve tra nativi digitali e immigranti digitali. Per esempio, smartphone e tablet vengono usati nella riabilitazione di patologie neuro degenerative come la demenza semantica, sfruttando il fatto che la memoria procedurale è l’unico tipo di memoria a rimanere intatto. I pazienti sono in grado di apprendere parecchie funzioni e di farne un uso quotidiano appropriato nonostante non siano in grado di ricordare nozioni semplici. I nativi digitali non esisto- no nel senso che persone nate insieme alla TV possono diventare abilissimi smanettoni, impegnarsi in relazioni interpersonali mediate dai dispositivi digitali, trovare più interessanti e coinvolgenti le realtà multimediali interconnesse rispetto alla quotidianità disconnessa. Tutti gli esseri umani dotati di un cervello possono diventare «nativi digitali» perché il cervello è estremamente plastico e si modifica molto rapidamente nell’apprendimento di procedure, tanto più se gamificate. Questo non significa affatto che queste persone siano in grado di comprendere, analizzare, modificare e insegnare i meccanismi procedurali che ripetono!

L’immersione più o meno profonda nelle realtà virtuali che penetrano nel nostro corpo organico attraverso i nervi ottici genera astrazione ambientale e disattenzione selettiva nei confronti degli stimoli non visivi, oltre che assuefazione. E staccarsi dallo schermo, dopo che sono passate ore che sembravano minuti, può diventare una sofferenza. Ridateci il gioco, ancora un attimo, solo un attimo, era così bello! È così piacevole l’alienazione da questo corpo. Lo scorrere del tempo è quindi un parametro fondamentale per identificare le diverse tipologie di interazione. Quando non ci accorgiamo del tempo che passa, siamo probabilmente in una fase di flusso 2, di immersione procedurale nella quale viviamo un presente ciclico di interazione, estremamente coinvolgente, che vorremmo non finisse mai. Quando il tempo invece appare lineare, con tappe esperienziali consapevoli, che siamo in grado di stratificare, di immagazzinare e di ricordare successivamente, ci troviamo in un momento di apprendimento sequenziale e di esercizio della memoria dichiarativa.

I videogiochi sono diventati una parte fondamentale della vita di milioni di persone, che complessivamente trascorrono miliardi di ore a giocare. L’industria videoludica ha superato per volume d’affari tutte le altre attività legate all’intrattenimento: realizzare un videogioco di successo, magari un MMPG (Massively Multiplayer Online Game), in cui i giocatori si connettono contemporaneamente per giocare in un mondo che creano insieme, può essere più costoso e remunerativo di un colossal hollywoodiano. Naturalmente i videogiochi non sono tutti uguali: quelli riempitivi, per far passare il tempo durante gli spostamenti, sono diversi da quelli di strategia, dagli sparatutto, da quelli che propongono rompicapi ed enigmi, e così via. La stragrande maggioranza dei videogiochi sono progettati per indurre stati di flusso.

Oltre al circuito di rinforzo dopaminico, possono agire sul rilascio di ossitocina e su molti altri neurotrasmettitori e ormoni. La ricerca è appena cominciata. Moltissimi videogiochi sono realizzati seguendo i dettami del comportamentismo, in particolare lo schema della Skinner box game, ideato dallo psicologo statunitense Burrhus Frederic Skinner3 nei suoi esperimenti con topi e piccioni negli anni Trenta del XX secolo. Skinner scoprì il condizionamento operante: un comportamento viene stimolato maggiormente, anche negli esseri umani, attraverso premi somministrati in maniera non automatica. Il topo schiaccia un bottone e riceve del cibo, ma non sempre. L’addestramento è più efficace, cioè il bottone viene schiacciato più frequentemente, se il rinforzo positivo non è automatico, ma possibile, probabile. L’analogo umano più banale è quello dei giocatori d’azzardo delle slot machine diffuse ormai ovunque: sanno bene che non vincono sempre (anzi quasi mai), eppure continuano a giocare, perché il condizionamento operante (potrei vincere) è più potente della frustrazione immediata (non ho vinto a questa mano). L’addestramento comportamentale è forse la maggior fallacia della gamificazione, che sia applicata a vide- ogiochi o a qualsiasi altro tipo di gioco.

L’interazione con i media digitali non è necessariamente rubricata come mero auto-addestramento, esercizio della memoria procedurale e dell’intelligenza simultanea o intuizione. L’hacking, l’arte di «metterci sopra le mani», far proprio il complesso funzionamento delle macchine e modificarlo a proprio piacimento fa senz’altro appello anche al ragionamento. Però rimanere imbambolati davanti a uno schermo per una classica e devastante sessione «da quaranta ore», finché non si crolla per sfinimento, è un esempio di abuso che sfrutta il circuito di rinforzo dopamini- co per dimenticarsi del proprio corpo organico. Si tratta quindi di alternare in maniera consapevole ed equilibrata diverse forme di intelligenza e memoria. La cura del sé comincia con l’osservazione delle proprie interazioni, ascolto delle proprie inclinazioni, con l’obiettivo di saper trovare i ritmi adatti a noi, sapersi dare regole. Creare la propria liturgia interattiva.

Dall'autodifesa ad una conviviale pedagogia hacker

Non vogliamo smettere di giocare, rinunciare al piacere di giocare insieme. Infatti, pensiamo che imparare giocando sia uno dei modi migliori per riflettere sul nostro approccio alle tecnologie, per renderle parte di noi. "Hands on" è il nostro motto: per il piacere di armeggiare con le macchine, adattare dispositivi e sistemi e farlo insieme, questa è la vera gioia. Questa attività in prima persona, questa piacevole interazione (qualche brivido erotico deve essere parte del gioco!) è una pre-condizione di felicità per un hacker che gioca con gli strumenti tecnologici. Nel corso dei nostri laboratori di "s-gamificazione" (de-gamificazione / de-ludicizzazione) abbiamo sviluppato una metodologia semplice per muoverci verso una pedagogia conviviale, giocando con le macchine che ci piacciono. Ma allora, prima dobbiamo sbarazzarsi degli automatismi che ci riducono a semplici ingranaggi delle mega-macchine aziendali. Per noi, auto-difesa digitale significa soprattutto abbandonare l'abitudine di re-agire agli stimoli di gamificazione. Come inizio dobbiamo cambiare le nostre abitudini in modo consapevole. Non è possibile fare un resoconto di un laboratorio tipico, perché non c'è un laboratorio tipico. Nella nostra esperienza ogni gruppo di persone e ogni situazione si rivela totalmente diversa da qualsiasi altra. Inoltre, spesso emergono questioni molto personali ed è essenziale mantenerle all'interno della zona protetta del gruppo, lontano dalle luci della ribalta. Quindi abbiamo cercato di riassumere i passaggi base e gli elementi dei nostri laboratori, in modo di fare un resoconto che sia una sola storia per tutte se pur raccontata in molti modi diversi. Il primo passo è prendere coscienza di essere immersi in ambienti interattivi plasmati da dispositivi automatici che non abbiamo scelto e che non ci fanno necessariamente sentire bene. Il secondo passo è quello di osservare noi stessi agire come se fossimo degli estranei, con bizzarre abitudini - guardando a noi stessi sotto forma di animali stani in ansiosa attesa di quel messaggio, irritati se non arriva, euforici per un like, sobbalzare quando appare una notifica ... Una volta individuato l'automatismo (stimolo-risposta) che ci fa comportare in una certa maniera, concentriamo l'attenzione sui cambiamenti emotivi che ne derivano. Rabbia, gioia, tristezza, eccitazione, impazienza, invidia, paura e molte altre emozioni che si manifestano costantemente, spesso associati. Esiste ovviamente un progetto interattivo di emozioni di cui siamo inconsapevoli. Il terzo passo è quello di dire agli altri, a persone di cui ci fidiamo, quello che abbiamo scoperto su di noi, sui nostri comportamenti. In questo modo non riveliamo fatti che ci riguardano su piattaforme pubbliche di proprietà di multinazionali . Al contrario, scegliamo i nostri spazi e tempi per togliere le maschere che animano la nostra liturgia interattiva personale. L’insieme di emozioni che ci fanno assumere il carattere di una persona indecisa, o di uno spaccone, o di un individuo timido, di un esperto competente e di molti altri possibili, rappresenta ciò che si è insediato nella nostra individualità - senza che noi ce ne accorgessimo. Fino a quel momento le posizioni "rispondiamo così" e "agiamo in questo modo"- ci mostrano quanto siamo sottomessi ai nostri comportamenti indotti. Infine, il quarto passo è quello di confrontare le nostre storie con quelle degli altri. Molto spesso troviamo che le nostre (modi) abitudini compulsive sono molto simili a quelli dei nostri compagni, ma scopriamo anche che esiste un gran numero di possibilità per cambaiare – fintanto che lo vogliamo veramente.

1. La società della prestazione, in Ippolita, Nell'acquario di Facebook , Ledizioni, 2012, p. 35.
2. Flow, or in the zone / in the groove. See Mihály Csíkszentmihály, Flow: the Psychology of optimal experience, Harper & Row, New York 1990.
3. Una breve introduzione può essere trovata in S. A. McLeod: Skinner: Operant Conditioning. 2015. https://www.simplypsychology.org/operant-conditioning.html L’opera classica è B. F. Skinner: Science and human behavior. 1953. - It - Scienza e comportamento: interpretazione, previsione e controllo nelle scienze dell'uomo, trad. Isaias Pessotti e Marco Todeschini, Milano: Franco Angeli, 1971 http://www.bfskinner.org/newtestsite/wpcontent/uploads/2014/02/ScienceHumanBehavior.pdf

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